Carità in opera contro la povertà sanitaria

RAPPORTO CARITAS 2016
ROVATI (UNICATT): POVERTA’ MAI COSI’ ALTA
LA SITUAZIONE REGGE GRAZIE AL TERZO SETTORE

Per la prima volta dal Dopoguerra ad oggi, le prospettive economiche dei giovani sono meno promettenti di quelle degli anziani. Giancarlo Rovati commenta il "Rapporto 2016 su povertà ed esclusione sociale in Italia” di Caritas Italiana

L’Italia sta cambiando e la novità sembra un aggravio di sofferenza: secondo gli ultimi dati disponibili (2015), 1 milione 582mila famiglie - 4,6 milioni di persone – vivono in stato di povertà. E’ il livello più alto dal 2005. E, per la prima volta dal Dopoguerra a oggi, il futuro dei figli appare più incerto di quello dei padri: oggi, infatti, la povertà assoluta è inversamente proporzionale all’età. E’ una circostanza inedita, messa in luce dal “Rapporto 2016 su povertà ed esclusione sociale in Italia” di Caritas Italiana, secondo il quale l’incidenza più alta della povertà assoluta (10,2%) è costituita dalla fascia d’età tra i 18 e i 34 anni. A seguire, l’8,1% hanno tra i 35 e i 44 anni, il 7,5% tra i 45 e i 54, il 5,1% tra i 55 e i 64 e il 4% oltre i 65 anni.
Numeri preoccupanti, complementari a quelli che saranno presentati da Banco Farmaceutico nel Rapporto 2016 “Donare per curare – Povertà sanitaria e donazione farmaci” il 10 novembre, presso la sede di Aifa (Roma – Via del Tritone, 181).
Li commenta per noi Giancarlo Rovati, professore di Sociologia generale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano e componente dell’Osservatorio Donazione Farmaci.

Cosa emerge dalla nuova indagine di Caritas?
Anche quest’ultimo rapporto evidenza la continuazione di tendenze già registrate negli ultimi tre anni. Ricordiamo che, nel 2013, era stato raggiunto il punto massimo dell’incidenza della povertà assoluta, sia tra le famiglie sia tra gli individui. Siamo, quindi, di fronte a un dato che non è il frutto dell’ultimo anno, ma inizia a manifestarsi in maniera sempre più evidente a partire dal 2010, fino a diventare strutturale. In particolare, oggi preoccupa il fatto che è aumentata la povertà assoluta. Quella dei più poveri tra i poveri. Essi rappresentano una quota sempre più alta nell’insieme della povertà, quota che, in passato, era molto più contenuta. Ciò significa che per affrontare l’indigenza più endemica, negli anni scorsi, occorreva impegnare risorse più limitate.

E oggi?
Oggi la povertà assoluta è cresciuta perché non ci sono state adeguate misure di contrasto. Anche le politiche basate su misure dirette quali, ad esempio, la social card, hanno alleviato la condizione dei più poveri, ma non sono state in grado di innescare un processo di arretramento. L’intervento, non è stato sufficientemente robusto.

Secondo il rapporto della Caritas, l’incidenza della povertà è maggiore tra i giovani che tra gli anziani
La situazione si è aggravata soprattutto nella popolazione in età da lavoro, dove assistiamo all’espansione del fenomeno dei working poor. In tale fascia, molti sono disoccupati. La maggior parte, però, lavora, ma con un numero di ore o con un salario talmente bassi da non consentire di uscire dalla soglia di povertà. Fino a pochi anni fa, il modello di povertà cui eravamo abituati era legato ad un’incidenza della povertà più elevata tra gli anziani. Questi avevano redditi pensionistici bassi o inesistenti, cui spesso si aggiungevano problemi di salute. La loro situazione è, nel frattempo, migliorata. La percentuale di poveri, tra gli anziani, è calata perché il sistema previdenziale è riuscito a garantirli. Le fasce adulte che si sono trovate in condizioni di marginalità legate alla fuoriuscita dal mondo del lavoro, invece, sono rimaste prive di forme di sostegno al reddito laddove insufficiente.

E’ possibile invertire il trend?
Siamo di fronte, come ha sottolineato il Rapporto della Caritas, ad un nuovo modello di povertà, con il quale occorre misurarsi. A questo obiettivo, le istituzioni dovrebbero dedicare forme di sostegno che assolvano a una duplice funzione: trasferire il reddito in forma monetaria per sopperire, nell’immediato, alla mancanza di risorse; erogare una serie di servizi che consentano di uscire dalla condizione di disoccupazione o sottoccupazione, attraverso interventi che facciano emergere le opportunità di lavoro e, all’interno del mercato, facilitino l’incontro tra domanda e offerta. Val la pena, in tal senso, ricordare la proposta dell’Alleanza contro la povertà (un tavolo di lavoro composto da 35 organizzazioni promosso dalle Acli in collaborazione con la Caritas, cui aderisce anche Banco Farmaceutico) di rendere strutturale e dotato di risorse adeguate il Reis, il Reddito di Inclusione Sociale.

Se il modello di povertà è cambiato, quali sono le nuove sfide per il terzo settore?
In questi anni, anzitutto, dobbiamo registrare la sua tenuta. Senza la sua determinante attività, il contesto sarebbe decisamente più grave. Ha svolto, infatti, una funzione di ammortizzare sociale rispetto all’aggravamento della povertà nei suoi diversi aspetti. Tuttavia, da solo non può ribaltare la tendenza.

Perché?
Anche il terzo settore partecipa degli effetti della crisi. E, in prospettiva, con l’aumento della povertà rischia di non essere più in grado di reggere il peso della domanda assistenziale. A meno che non trovi risorse aggiuntive. Le onlus vivono, fondamentalmente, del sistema delle donazioni, private e pubbliche e di attività come il fundraising. Occorre, su questo fronte, che si attrezzino ulteriormente. Da questo punto di vista, per chi raccoglie risorse che altrimenti andrebbero sprecate, come Banco Farmaceutico, la recente approvazione della Legge Gadda è funzionale a rendere più efficiente questo genere di attività.
Il terzo settore, inoltre, agisce in maniera sussidiaria. Per definizione, non può farsi carico dell’intero bisogno. Tuttavia, nella sua sfera di competenza, si è mostrato più efficiente del settore pubblico, generando valore per tutta la comunità.

Quindi?
Questo ci conferma che nel disegnare politiche pubbliche di intervento sulla povertà, il terzo settore deve essere considerato un partner primario. Deve essere coinvolto a due livelli: nella ideazione delle misure – come nel caso dell’Alleanza contro la povertà - e nella loro attuazione. Perché il terzo settore ha una capacità di raggiungere “zone grigie” che la pubblica amministrazione, con le sue procedure, non è in grado di penetrare. Basti pensare al vincolo della prova dei mezzi (ad esempio, alla presentazione dell’Isee): per quanto necessarie a evitare comportamenti opportunistici, rischiano di tagliare fuori le fasce più marginali che, spesso, non sono in grado di produrre la documentazione necessaria.


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